Dando una rapida occhiata al nostro campionato non è difficile accorgersi del fatto che molte squadre sono ormai composte da moltissimi stranieri e pochissimi italiani.
Un fenomeno iniziato sul finire degli anni 90 e che, piano piano, è dilagato fino a diventare qualcosa di apparentemente inarrestabile.
Dalla riapertura agli stranieri del 1980 (dovuta ad una lunga clausura per i risultati deludenti della Nazionale) ne è passata di acqua sotto i ponti.
Da due stranieri si è passati a 3 (per adeguarsi alla libera circolazione dei lavoratori in ambito comunitario) per poi, con la sentenza Bosman, arrivare al libero tesseramento di giocatori comunitari.
Si passa così da una presenza ridotta, se non minima, ad una vera invasione che sancisce (nella stagione 2012/2013) il sorpasso degli stranieri rispetto agli italiani tesserati dalle società di massima serie per arrivare infine ai dati attuali che vedono, fonte transfermarket.it, una presenza del 62,7% di giocatori “non italiani” nella nostra serie A.
Un fenomeno che peraltro coinvolge inevitabilmente anche gli altri sport (vedi basket e volley) dove la massiccia presenza di giocatori d’oltreconfine limita di molto le possibilità dei talenti nostrani.
Ma a cosa è dovuto questo fenomeno e qual è la situazione negli altri Paesi?
In Inghilterra la situazione è molto simile, forse la differenza maggiore sta nel livello dei giocatori non inglesi rispetto agli stranieri presenti nel nostro campionato.
Il dato è infatti peggiore rispetto al nostro (68,5%) anche se l’impiego di questi giocatori in campo è poi inferiore a quello che ne facciamo noi in Italia. Bundesliga e Ligue 1 si appaiano intorno al 54/55% mentre il Paese più nazionalista, in questa speciale classifica, è la Spagna dove “soltanto” il 43% dei giocatori arriva da fuori.
Scelte insensate quelle che avvengono in Italia perché se da una parte (Inghilterra) ci sono mezzi enormemente superiori a quelli presenti dalle nostre parti (investitori stranieri facoltosi, Premier League dal valore enormemente superiore in termini economico/finanziari) da queste parti continuano a pullulare situazioni imbarazzanti, presidenti che guadagnano dal proprio team anziché investire in esso, società ambiziose affossate nei loro debiti ed incapaci di perseguire una strategia che abbassi i costi ed aumenti gli introiti.
In Italia conta vincere, a qualunque costo (come dimostrano le vicende juventine di questi mesi)!
Strutture inadeguate, costi eccessivi dei cartellini, pigrizia e soprattutto mancanza totale di investimenti e lungimiranza. In Italia si vuole tutto e subito, non c’è la pazienza di costruire, creare un progetto, svilupparlo nel tempo in attesa che dia i suoi inevitabili frutti.
I nostri ragazzi peraltro sono lontani parenti da quelli affamati degli anni 70/80, desiderosi di arrivare al massimo livello possibile. Le nuove tecnologie stanno “stordendo” i giovani sempre più borghesi, sempre più pigri, sempre meno affamati. Non sarà un caso che le percentuali maggiori di giocatori stranieri in Italia sono di giocatori provenienti da realtà “povere”, dure, dove poco tempo si perde a giocare a casa con una playstation e più tempo si passa in campo, ad allenarsi, a sputare sangue pur di arrivare.
Per quei pochi che hanno voglia di fare, di allenarsi duramente, di raggiungere il top la strada è comunque sbarrata poiché anche nei migliori settori giovanili ora si ricorre agli acquisti, si preferisce acquistare il ragazzo di 14/15 anni già formato (anche all’estero), già potenzialmente bravo senza perdere tempo e denaro nella costruzione di talenti.
Un cane che si morde la coda insomma, una situazione alla quale bisognerebbe porre rimedio in qualche modo prima che sia troppo tardi, prima che il fenomeno diventi irreversibile senza avallare le scelte ancor più esterofile del tecnico della Nazionale che adesso, oltre ai club, vuol far diventare straniera anche la maglia azzurra!