Stephen Curry si guarda intorno attonito, con le lacrime agli occhi, gli incubi del recente passato sembrano svanire in un colpo solo, dissolversi davanti agli occhi per dar spazio a quella Coppa tanto ambita da rappresentare un’ossessione vera e propria.
Accanto a lui sorride compiaciuto Klay Thompson il redivivo, capace di passare attraverso le forche caudine di due stagioni che definire travagliate è dire poco.
Prima il crociato poi il tendine d’Achille, un uno due capace di stendere chiunque, una sequenza d’infortuni terribile che sembrava aver spezzato per sempre il sogno di Golden State, imporre una dinastia come era riuscito ai Celtics di Bill Russell, ai Lakers di Magic o Kobe, ai Bulls di Jordan.
Gli “Splash Brothers” sono stati costretti, per ben due anni, al palo, impotenti di fronte a malanni fisici che di fatto, li hanno messi ai margini del basket NBA.
Una vera e propria corazzata si era dissolta nel nulla nel 2019 quando, di fronte ai fendenti di Khawai Leonard, avevano perso le Finals.
Quel giorno nessuno avrebbe mai immaginato quanto dura sarebbe stata risalire la china, rimettersi in carreggiata e riproporsi ai massimi livelli.
Durant che per due anni consecutivi si era aggiudicato il titolo di MVP delle Finals (mentre Curry lo era stato della Regular Season) proprio nell’estate del 2019 lascia i Golden State Warriors nei quali era approdato tormentato da un fiume di polemiche (troppi All Star per un solo team) per andare a Brooklyn.
2019/2020 – 2020/2021
Il biennio 2019/2020 – 2020/2021 si rivelerà per la squadra di San Francisco una vera e propria Odissea.
Orfani di Klay Thompson al termine della fallimentare stagione 2019/2020 registrano il peggior record della NBA, l’anno seguente (ad inizio stagione) è Curry a rompersi la mano e, costretto ad un intervento chirurgico, di fatto salta l’intera stagione. Draymond Green pure subisce degli infortuni e, comunque, non può cantare e portare la croce da solo.
Anche la stagione 2020/2021 si rivelerà un fallimento e, per molti, i Campioni in gialloblù sono ormai destinati all’oblio.
I veri campioni però non mollano mai soprattutto se colui che li guida, Steve Kerr, è un uomo vero.
L’ex fido scudiero di Michael Jordan ora è un uomo fatto e finito, un uomo tutto d’un pezzo, con un carattere di prim’ordine capace anche, sfidando l’establishment americano, di schierarsi apertamente contro l’utilizzo delle armi dopo la recente strage di bambini avvenuta in una scuola statunitense.
È lui il vero fenomeno e deus ex machina della squadra. Forte di un carattere fuori dal comune, di una leadership innata forgiata da un passato luminoso a dir poco, di un’intelligenza di primo livello, anziché piangersi addosso e considerare finita la sua esperienza ha plasmato la sua creatura nei momenti più bui, modellandola, forgiandola, aspettando tempi migliori.
Ha atteso che la tempesta finisse, che i suoi uomini migliori tornassero a disposizione, ha puntellato la squadra con giocatori ambiziosi e desiderosi di vincere puntando ancora su quella terribile sete di successo dei suoi giocatori simbolo: Green, Curry e Thompson.
Ad aiutarli ora ci sono Andrew Wiggins e Jordan Poole (fenomenale alternativa a Curry e Thompson), il lungo Kevon Looney ed il veterano Iguodala (tornato all’ovile dopo una fuga coincisa con il disastro di cui si diceva prima).
Durante la stagione i meccanismi sono tornati pian pianino a funzionare come prima, Klay Thompson si è riaffacciato finalmente sul parquet intravedendo la fine del tunnel, Draymond Green ha capito che poteva essere ancora un difensore fenomenale e di poter tornare al successo mentre Stephen Curry, beh lui, lui doveva soltanto giocare e stare bene per essere cio che è sempre stato, una macchina da punti.
Se si pensa ai Golden State Warriors ed ai loro incredibili successi non si può non pensare a lui, a questo funambolo del basket capace di riscrivere le regole del gioco.
Cambiano le regole?
Come avvenne ormai nel lontano 1967 (Lew Alcindor Rule) quando si introdusse la regola che vietava le schiacciate per, come si dice, impedire a Lew Alcindor, meglio noto come Kareem Abdul Jabbar, di schiacciare con troppa facilità (portando il leggendario centro a sviluppare il famoso “gancio cielo”), da più parti si parla ora di modificare la distanza da canestro per il tiro da 3 punti, di abolire i 3 punti, di modificarne l’area di gioco, tutto questo per l’avvento di questo ragazzo nato 34 anni fa nello stesso ospedale di Lebron James.
Ma Curry è molto più che un grandissimo, il più grande di sempre, tiratore da 3. Dotato di un palleggio disarmante con rapidità, intelligenza e dinamismo, riesce sempre a trovare la via del canestro, che sia da centro campo o sfruttando la maggior velocità contro centri che lo sovrastano spesso anche di 30 cm.
Kerr e Curry
Mentre Kerr è la mente, il direttore d’orchestra, Curry è la sua trasposizione in campo, il miglior intrerprete di un gioco che, spesso e volentieri, diventa impossibile da decifrare o disinnescare per le difese avversarie.
Passaggi di prima, visione perimetrale del campo, ricerca dell’uomo libero meglio posizionato in campo, sono alcuni dei dettami principali del gioco dei Golden State Warriors, squadra capace di attrarre il proprio avversario, minacciandolo con conclusioni da distanze siderali, per poi colpirlo con tagli ed entrate favorite proprio da questo costante pericolo ed allontanamento dal perimetro.
Un pericolo che negli anni è stato costituito da 2 terrificanti tiratori come Thompson e Curry ai quali, di volta in volta, si sono affiancati interpreti che, come Kevin Durant prima e Jordan Poole ora, hanno reso il compito letteralmente impossibile ai malcapitati di turno.
E’ bene però sottolineare anche quanto, questa squadra, sia il frutto di un lavoro certosino, di scelte effettuate a partire dal 2009 (anno in cui fu selezionato Curry), di mattoncini messi uno sopra all’altro negli anni e non certo di un caso o di uno strapotere insensato.
A Curry (7a scelta) è stato aggiunto prima Thompson (11a scelta) poi Green (35a scelta), un trio che ha costituito l’ossatura dei successi di questo decennio.
Forse Durant è stato troppo, soprattutto perché ha significato diventare un qualcosa di sproporzionato rispetto a tutti gli altri (unica squadra di All Star), ma è pur sempre stato un qualcosa di regolare, legale, che ha permesso alla franchigia di assicurarsi 2 titoli consecutivi.
La maggior sapienza manageriale è stata determinante.
Paradossale forse soltanto il fatto che Golden State non sia riuscita a vincere il titolo nell’anno in cui ha frantumato il record dei Bulls con 73 vittorie in Regular Season.
E dopo aver raggiunto il terzo posto nella Eastern Conference Kerr & co hanno quindi regolato prima i Denver Nuggets (del favoloso Jokic) per 4-1, poi i Memphis Grizzlies (di Ja Morant e Jackson) con un sofferto 4-2 ed infine i Dallas Mavericks (di Luca Doncic) ancora per 4-1.
Il loro cammino verso la finale è stato di sicuro meno sofferto di quello dei Celtics che sulla loro strada hanno trovato prima i Bucks di Antetokounmpo e poi i terribili Miami Heat di Jimmy Butler.
In entrambi i casi si è arrivati a gara7 per riuscire a prevalere e non è escluso che ciò abbia tolto energie significanti ai giocatori di Boston.
Il titolo conquistato l’altra notte dai GSW ai danni dei giovani e talentuosi Boston Celtics è forse il culmine di una dinastia, ora sì possiamo definirla proprio tale in quanto, negli ultimi 8 anni, i Warriors hanno raggiunto le Finals ben 6 volte perdendo soltanto in 2 occasioni (una delle quali vanificando un vantaggio di 3-1, cosa mai accaduta prima nella storia della NBA).
Il Re era nudo, è stato nudo per ben due anni, ha sofferto stando ai margini, ingoiando bocconi amari uno dopo l’altro ma il 17/06/2022 è tornato sul trono e l’ha fatto ribadendo tutto il suo potere, la sua esclusività, la sua unicità ed il futuro potrebbe regalare nuovi capitoli ad una saga già leggendaria.